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Il nostro bambino interiore

Questo articolo - il primo di questo nuovo anno - vuole fare da cornice ad un' intervista che mi verrà fatta settimana prossima sulle ferite emotive che abbiamo vissuto da bambini e che condizionano la nostra vita, il nostro modo di sentire, pensare e comportarci oggi.


In ogni percorso che condivido con coloro che si rivolgono a me per guardarsi dentro e trasformare ciò che sta chiamando a gran voce per essere visto e mutato, ad un certo punto - e non potrebbe essere altrimenti - compare lui: il bambino interiore.


Chi? Il bambino che siamo stati e che vive tuttora dentro di noi. Sì, nel nostro corpo con sembianze da adulto c’è lui, un bimbo di qualche anno che non aspetta altro che essere visto, riconosciuto e ascoltato.

Esso seppur relegato nei meandri della nostra “vita dentro” trova sempre il modo di emergere e di vivere nell’adesso, anche se la maggior parte di noi non sa che si tratta di lui.


Il bambino interiore si manifesta attraverso i nostri modi abitudinari di reagire alle situazioni della vita, modalità proprie che parlano della nostra personalità. Dinnanzi ad una stessa circostanza ognuno di noi reagisce in un modo del tutto personale: non esprimendo la propria opinione, facendolo invece con grande impeto; cercando di accontentare tutti quanti, prodigandosi per essere di aiuto all’altro o con una necessità impellente di far regnare la giustizia.


Dietro a questa nostra tipica re-azione, vi è una forza matrice che trae alimento da un bisogno che non è stato soddisfatto durante la nostra infanzia.

Quest’ultimo altro non è che un vuoto che noi tentiamo di riempire con un "modo di essere” che ci permette di stare alla larga da quel dolore originario che abbiamo sperimentato quando siamo rimasti nell’attesa che quel bisogno - che è sempre un bisogno d’amore- venisse colmato.


Perpetuare il non esporsi dicendo la propria opinione quando vi è la possibilità invece di un confronto, per esempio, può parlarci del nostro modo di allontanare da noi la possibilità di provare nuovamente quella sensazione di rifiuto o umiliazione che abbiamo percepito quando da piccoli abbiamo detto la nostra e le reazioni del nostro ambiente più prossimo hanno scatenato in noi un vissuto doloroso che ci ha fatto sentire che non venivamo tenuti in considerazione o addirittura derisi. E così una volta aperta una pista nel cammin di nostra vita seguiamo sempre quella, sempre quella, sempre quella..


Il bambino interiore allora diventa un grande alleato durante un percorso di conoscenza di se stessi perché se ascoltato, ci mette in contatto con i nostri bisogni non soddisfatti. Ci fa capire cosa sentiamo dentro di noi lì sotto quando re-agiamo sempre in quel modo dinnanzi alla stessa circostanza: proviamo rifiuto? abbandono? tradimento? umiliazione? ingiustizia?


Ci permette di arrivare a questa consapevolezza perché attraverso di lui accediamo alla nostra zona d’ombra -termine molto caro allo Psicanalista Gustav Jung - che descrive quella parte della nostra psiche in cui letteralmente releghiamo tutto ciò che non vogliamo vedere di noi stessi. Lo buttiamo lì giù in fondo, perché è d’intralcio al mantenimento del nostro modo abitudinario di vivere la vita, abitudine che si palesa in tutta la sua essenza quando di noi diciamo “cosa ci posso fare, io sono così!”


Siamo esseri relazionali, ed in quanto tali siamo spugne ovvero assorbiamo ciò che ci circonda, in primis ciò che proviene dal nostro ambiente familiare in cui respiriamo ogni giorno, giorno per giorno. Il bambino ha bisogno dell’adulto e la sua vita è fortemente condizionata dal rapporto con il "grande". Ha bisogno dell’adulto perché il piccolo non ha ancora una sua sicurezza che giustifichi la sua autonomia.



Il bambino ha bisogno di sentire che c’è una considerazione delle sue difficoltà, di ciò che lo spaventa. Quando non offriamo risonanza a nostro figlio gli viene a mancare la conferma del suo momento di disagio. C’è un elemento molto importante nel rapporto con il figlio: la comprensione -dal latino cum-prehendere, che significa prendere insieme, contenere ma anche abbracciare-.


Pur essendo questi dei presupposti cardine nello sviluppo psicofisico di tutti noi c’è tuttavia un però che merita, almeno così io sento, un’attenzione particolare; nell’essere umano sussiste una tendenza al vittimismo, ad attribuire all’altro -spesso ai genitori- il nostro modo di essere e le difficoltà ad esso connesse. Quando ci troviamo in queste condizioni risulta di fondamentale importanza trasformare questo modo di vedere le cose, perché se non lo facciamo restiamo statici, non andiamo avanti.


E’ importantissimo dare voce al proprio dolore, portar fuori tutte le credenze relative anche a questa relazione causa-effetto tra il nostro modo di essere oggi ed i genitori che abbiamo avuto. Tuttavia dobbiamo anche permetterci di ampliare lo sguardo per arrivare a comprendere -quando è il momento giusto per farlo -che i nostri genitori hanno fatto ciò che potevano fare e lo hanno fatto al meglio delle loro possibilità, in base al loro livello evolutivo. Non dimentichiamoci che la generazione dei nostri genitori non sapeva assolutamente nulla sull’intelligenza emotiva.. Essi hanno fatto ciò che sapevano in base alle loro conoscenze, alle loro proprie esperienze, alle loro mancanze: spesso ci hanno “rimpinzato” di ciò che a loro è mancato e che tanto avrebbero voluto per sé. In altri casi, non sono stati in grado di sviluppare quella compassione necessaria che serve per crescere un figlio nonostante esso non incarni il figlio che ci siamo costruiti nel nostro immaginario. I panorami sono vari. Ognuno diverso ma utile alla crescita.


Questi panorami, a volte più semplici, altre volte molto dolorosi, sono le nostre condizioni di partenza. Del resto che senso avrebbe la vita se vivessimo costantemente in situazioni di massima protezione e sicurezza? Da quali condizioni troveremmo quella forza, quell’impulso ad andare avanti verso la comprensione della vita se non da condizioni che includano anche note di difficoltà? Ciò che ci spinge a muoverci è ciò che ci manca, detto in altri termini se non ci sono delle difficoltà si resta fermi.


Arrivare a comprendere che i nostri genitori hanno fatto ciò che era nelle loro possibilità -perché nessuno può offrire all’altro ciò che non possiede- non sempre è facile da accettare, può portare a grandi riflessioni, ma non è sufficiente alla guarigione.


Non basta infatti sapere, occorre trasformare; perché chi vuol essere nutrito non è solo l’intelletto ma anche la nostra memoria cellulare, luogo fisico, luogo in cui abita la materia di cui siamo fatti, in cui il dolore resta condensato per poi eventualmente manifestarsi in tempi successivi con una serie di sintomi fisici.


Per questo motivo nel tempo sono andata sempre più alla ricerca di tecniche che potessero entrare in contatto con le nostre cellule, proprio lì dove restano imbrogliati i nostri inghippi emotivi e oggi la mia ricerca non è conclusa ne probabilmente - e di questo ne sono felice - lo sarà mai.


Per trasformare bisogna dunque anche mettere le mani in pasta, in quella massa che ci appartiene: il nostro corpo. E’ lì che si sedimenta l’energia che abita in noi e che vorrebbe fluire liberamente ma che non ce la fa perché abituata ad altre direzioni, ad altri impulsi. Mandare messaggi alla nostra memoria cellulare per raccontarle che “altro” è possibile: questo è un lavoro importantissimo da svolgere. L'approccio che sono venuta costruendomi nel tempo passa attraverso varie strade che abbracciano psiche e materia: strade tra loro convergenti come la bioenergetica, l’ arte-terapia, la floriterapia, l’impiego di visualizzazioni etc- tutte strade che portano verso l’interno, verso la vita dentro.


Siamo noi gli artefici della nostra guarigione, della rimessa in campo di quell’energia che non vede l’ora di venir smossa!


Buona vita


Wilma







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