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"Donna partorirai nel dolore"

Davvero Dio pronunciò queste parole in risposta alla disobbedienza di Eva, che colse e mangiò la mela dall’Albero delle Vita? E davvero si trattò di disobbedienza?


Io ad un certo punto me lo sono domandata e la risposta che ho trovato durante la mia personale ricerca è stata la seguente: nella vita puoi credere o voler comprendere.

Credere o comprendere?

Se credi, ciò che stai facendo è affidarti, delegando ad altri ciò che invece puoi conoscere tu e che non è detto che corrisponda alla visone dell'altro. Si può credere a tutto ciò che si vuole....


....ma il nostro vero potere risiede nella conoscenza che a differenza della credenza, come afferma il Dottor Gianpaolo Giacomini nel suo libro “Trattato di alchimia delle emozioni” "si basa sull’esperienza diretta ovvero sul verificare che ciò che è, lo è perché è così.“



Quando parlo di conoscenza non mi sto riferendo al metodo scientifico. Dal mio punto di vista oggigiorno esso non può più rappresentare l’unico asse portante che tiene in piedi la nostra conoscenza e questo per almeno due motivi. Da un lato perché il sempre più forte desiderio da parte dell’uomo di voler e credere di potere controllare la realtà circostante, ha condotto ad un uso improprio dello stesso metodo. Dall’altro perché sempre più persone si stanno rendendo conto che non siamo solo carne ma anche Spirito ed il ricorso smodato che si è fatto e si continua a fare al metodo scientifico per spiegare ciò che è “vero”, ha privato la vera conoscenza di una delle sue componenti essenziali: quella spirituale, sottile, che dimora in ognuno di noi e che parla per l’appunto il linguaggio di Dio.


La conoscenza non può, per come oggi vedo e percepisco la vita, venir spogliata di quell’ esperienza che ingloba il nostro sentire più profondo e che può emergere quando decidiamo di occuparci di noi, di guardarci dentro per volgere il nostro sguardo su quegli aspetti in ombra che, finché non portati alla luce, tengono le briglie della nostra esistenza.


Per questo motivo oggi sento che Scienza e Spiritualità dovrebbero iniziare a dialogare per permettere ad entrambe di dare il meglio di se stesse per il ben-essere di tutti noi. Ma questo ovviamente è un opinione personale e come tutto ciò che è personale non deve essere per forza di cose condivisa da tutti.





Ma torniamo alla credenza e alla conoscenza. Possiamo scegliere se credere che Dio per punire Eva, rivolse a lei queste parole: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli". Oppure possiamo scegliere di conoscere.




Io mi sono spostata verso la conoscenza -perché ho verificato in prima persona attraverso l’esperienza diretta di avere percepito Dio dentro di me - che quel Dio che parla il linguaggio dell’Amore, non poteva aver pronunciato quelle parole perché nell’Amore non c’è spazio per la condanna.


Che piacevole sorpresa quando incontrai ricercatori che mi accompagnarono a vedere e sentire che Dio nella Genesi non ha mai parlato di dolore ma piuttosto di fatica. Alcuni studiosi di teologia tra cui Igor Sibaldi -uomo di conoscenza che apprezzo molto e seguo con grande entusiasmo - affermano che ci troviamo dinnanzi ad un errore di traduzione. La parola ebraica «ètzev», e suoi derivati, significano sforzo, fatica o affanno, e non dolore. Cinque volte su sei - questo è il numero di volte che appaiono nella Genesi- esse vengono tradotte correttamente, tranne in quel passo. Così Dio avrebbe detto “Donna partorirai con fatica” e questo, come sottolinea lo scrittore Erri De Luca nel suo libro “Le sante dello scandalo”, è una constatazione e non una condanna o punizione.


Altri ricercatori invece mi offrirono questa visione: ciò che spinse Eva a cogliere e mangiare la mela fu il desiderio intrinseco della natura umana di conoscere, di andare appunto oltre la credenza- e ritorniamo al discorso con cui ho scelto di iniziare questo articolo: "credere o comprendere?".


Fu proprio questo gesto che permise ai due di fare l’ inevitabile ingresso nel Mondo duale - luogo in cui regna il bene e il male, la luce ed il buio.. -. Inevitabile perché il Paradiso andava abbandonato per poter iniziare quell'esperienza di Vita in cui si entra in contatto con i contrari e attraverso i quali è possibile confrontarsi con se stessi in un ottica di crescita, risveglio e ritorno a Dio.


Successe che una volta fatta esperienza del gusto della conoscenza, sia in Eva che in Adamo, scattò il giudizio ed entrambi provarono vergogna.


Giudizio e vergogna, per come ci sono state narrate le cose, oggi li interpretiamo come diretta conseguenza del peccato originale come a dire "Ti sei comportato male? Ora vergognati, sentiti in colpa". Io invece credo che Dio non fece sperimentare questi sentimenti ai suoi figli per punirli ma perché desiderava che conoscessero il libero arbitrio, elemento indispensabile per la nostra evoluzione personale.


Questo passo della Genesi - i miei occhi lo leggono così - ci viene a dire che l'essere umano si sia ritrovato inevitabilmente a fare i conti con un giudice interiore e ad oggi continua a farlo ogniqualvolta sperimenta il desiderio di muoversi, di discostarsi da una condizione precedente, di andare verso sé a discapito degli altri. Ciò avviene perché c’è sempre una parte in ciascuno di noi -quella di Eva che in prima istanza sceglie di seguire sé stessa- che vuole guidarci verso la conoscenza, conoscenza del mondo attraverso cui poi possiamo fare la vera conoscenza di noi stessi.Ma c'è sempre anche una parte, che nasce dalla prima, e che indossa le vesti del senso di colpa, che cercherà di tenerci a bada. A noi il compito di nutrire la prima e lasciare andare l'altra.


Dunque sentire questo attrito è in realtà un bene, una porta di accesso verso la conoscenza.


Certamente è difficoltoso misurarsi con queste due parti; fa male perché implica scollarsi da addosso un modus operandi e di pensiero che senti che non ti appartiene più o non ti è mai appartenuto ma che hai dovuto sposare. Ma tutto ciò è solo uno step -un passaggio necessario - che ti serve per fare esperienza e per permettere poi di ricordare a te stesso quanto invece tu sia stato capace, quanto tu abbia saputo misurarti con quella parte di te che ti voleva uguale a tutti gli altri perché si sa..dove la si pensa in tanti nello stesso modo si sta più comodi e dunque ci si sente più al sicuro, meno in balia di quegli scossoni che invece guarda caso, non solo fanno parte, ma sono anche voluti dalla vita stessa.. per portarci oltre noi.


E’ infatti proprio lì.. dove inizi a sentire che quell’appartenenza e quella sottomissione a determinate leggi stride con il tuo nucleo interiore…e quando inizia a percepire che questa difficoltà ha una sua ragion d'essere..quando riesci a dare un senso ad essa..è lì ..che avviene la svolta.


Ma torniamo al parto.


Queste parole “donna partorirai nel dolore” riecheggiano nella psiche femminile quando siamo chiamate a vivere l’esperienza del parto. Certamente il peso di questo retaggio culturale non sarà lo stesso in ogni donna -non possiamo dimenticarci che ogni donna è un Universo a sé, ognuna è figlia della sua storia animica, dei suoi genitori, delle proprie esperienze di vita. Tuttavia è bene ricordarci che ci troviamo dinnanzi ad un giudizio collettivo per cui generalmente opto quasi sempre per affrontare questa tematica con le mamme in dolce attesa che si rivolgono a me.


E questo è quello che osservo: in molte donne c'è un atteggiamento di base pieno di paure, imbevuto in dogmi e divieti: in molte è viva, anche se inconscia, l’aspettativa di venire punita per qualsivoglia trasgressione. Trasgredire può voler dire non sottomettersi al volere del camice bianco, permettersi di gridare quando il dolore è intenso, scegliere in che posizione mettersi per partorire il proprio figlio quando non ci viene detto chiaramente che possiamo assumere la posizione che desideriamo.


E dunque risulta necessario proporre un lavoro - a chi sceglie di intraprendere un percorso personale di conoscenza di sé durante la gravidanza - che accompagni la donna a vedere e sentire che può rimettersi al comando di quell’ apparato psicofisico che conduce ogni giorno e può farlo lasciandosi guidare dalla sua anima… senza sensi di colpa anzi …con la quel sentimento di fierezza che sperimentiamo quando ci scopriamo superiori alla donna che eravamo ieri. Perché il senso di colpa non fa altro che ostacolare la nostra creatività durante il parto e non ci permette di restare collegate al presente.


Passiamo ora alla fatica. Potrebbe dunque essere che Dio non abbia scelto il dolore come punizione ma piuttosto la fatica come elemento di consapevolezza.


L’aspetto fatica mi venne offerto per la prima volta da una delle mie insegnanti, Giuliana Mieli, Psicologa esperta in psicologia perinatale, Psicoterapeuta e Filosofa. Ella mi condusse e mi portò a vedere che il parto è un evento faticoso (non semplice ma nemmeno così impossibile come oggi la società ci vuol fare credere) perché parla della fatica che la donna è chiamata a vivere ogni qualvolta si ritroverà nella vita a lasciare andare il figlio nel mondo. Dare un figlio a luce è faticoso perché la Natura vuole ricordare alla donna - imbevendone le sue cellule attraverso l’esperienza del parto - che la maternità è un’esperienza di vita, oltre che gioiosa, fatta di una costante messa in gioco di se stesse, di ascolto di sé attraverso il figlio e anche di rinunce.




Il parto è un’esperienza iniziatica perché fa da preludio a quella fatica e quel dolore che caratterizzano la perdita di fusionalità simbiotica e poi simbolica con il proprio figlio, che più e più volte la mamma sarà chiamata a vivere nel corso della vita- l’inizio dello svezzamento, la fine della storia di allattamento, l’ingresso a scuola, il trasferimento del figlio in un altra città etc...


E questa legge di vita parla di amore, di quell’ incondizionato che dovrebbe nutrire ogni rapporto e alla cui ricerca siamo tutti chiamati. Quell’amore che si dà senza pretendere di ricevere nulla in cambio. L’amore genitoriale. Quell’amore in cui coesistono aspetti più prettamente femminile -come l'accoglienza e la comprensione-, unitamente a quelli più maschili dell’essere donna, aspetti questi ultimi, che la sostengono nel guidare il figlio nella vita attraverso la messa in campo di direzioni da illustrare e di indicazioni da dare.


E dunque fatica. Dio non volle condannare la donna trasformando il parto in un evento doloroso. Il dolore c’è, senz’altro. Il dolore è una componente imprescindibile di questa esperienza di passaggio. Ha delle connotazioni fisiologiche, vi sono delle caratteristiche fisiche che ne spiegano la sua esistenza come la presenza delle fibre muscolari che rivestono l’utero e che comprimendosi e poi distendendosi provocano quel dolore che chi ha partorito, ha appunto sperimentato.


Oggi questo dolore sta diventando sempre più patologico perché a venire sempre più alimentata nella donna è la paura e non la fiducia in se stessa. E la paura si sa.. fa paura, stringe, chiude.. e dunque come può il corpo femminile che dovrebbe aprirsi come un fiore di loto durante il parto, assolvere questo compito, se a far da padrona è una forza che rema in direzione opposta all’apertura alla vita?


Sovente il parto viene presentato come “lo scoglio” da superare e non come quell’evento che incarna una sana crisi e che come ogni crisi, porta inevitabilmente con sé un’ ambivalenza degna di nota: essa rappresenta infatti allo stesso tempo una situazione faticosa -come Mieli insegna - ma allo stesso anche una situazione che cela un’ opportunità. L’ opportunità di scoprire le tue risorse vuoi per la tua capacità di aver saputo stare nel dolore, vuoi per la tua capacità di aver potuto comprendere che c’è sempre e comunque una vita che sceglie come nascere, indipendentemente dal tipo di parto che alla fine tu abbia sperimentato.


E dunque “dove siamo arrivati?” Fino a che punto stiamo permettendo che la società -che siamo noi tutti e che reggiamo in piedi insieme - ci tenga prigionieri sotto la morsa della paura?


Ma come sempre nulla è perduto, anzi spesso è necessario prima perdersi del tutto, per potersi poi ritrovare nel proprio splendore. E “nulla si fissa per sempre” come mi venne detto quel giorno dalla mia Maestra di Vita.


Un caro saluto

Wilma












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