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Ingresso al nido: sensi di colpa e risonanza emotiva tra mamma e bambino

Per un bambino di pochi mesi di vita o di qualche anno (0-3) separarsi dalla mamma facendo ingresso per esempio in un nido è un passaggio con la P maiuscola, in quanto rappresenta l'allontanamento dal proprio nido, dalla sicurezza che conosce e che parla il linguaggio di casa sua, dei suoi genitori. Se occhi adulti sono in grado di vedere la temporaneità di questo allontanamento - la mamma sa che dopo il lavoro torna a prendere il figlio- il piccolo invece questo all'inizio non lo sa perché non ne ha ancora fatto esperienza. I bambini difatti comprendono attraverso l'esperienza perché non esiste nessun capire che passa attraverso le sole parole.


Il bambino ha bisogno dell’adulto e la sua vita è fortemente condizionata dal rapporto con esso. Questa necessità di avere accanto a sé una figura adulta si basa sul fatto che il bambino non ha ancora una sua sicurezza che giustifichi la sua autonomia.


Ovviamente ci sono situazioni in cui il piccino non sperimenta questa sicurezza nemmeno nelle mura di casa, ma tralasciando queste situazioni, se dobbiamo attenerci allo sviluppo fisiologico del bambino, quando siamo piccoli il cambiamento che ci porta lontano dalla nostra famiglia è a tutti gli effetti un cambiamento rivoluzionario, perché fatto di novità che remano contro quello spirito conservativo che è tipico dei bambini piccoli.


L'inserimento al nido è spesso vissuto con grandi sensi di colpa da parte dei genitori e questo è normale e va accettato per quello che è, ovvero per quell'emozione che nasce nel momento in cui sentiamo che non stiamo soddisfacendo i bisogni dell'altro, in questo caso del proprio figlio.


Sicuramente la colpevolizzazione non aiuta perché a tutti gli effetti ha in noi un effetto di blocco. Sentirsi colpevoli ci tiene ancorati al passato e non ci permette né di vivere bene il presente, né di tenere uno sguardo puntato verso il futuro, di sognare in grande e di lavorare nel presente per raggiungere ciò che vogliamo.


Ma ciò non significa che il senso di colpa vada scacciato. Fin troppo spesso vogliamo allontanare da noi emozioni scomode -rabbia, tristezza, paura- quando invece il lavoro da fare è nella direzione opposta. Succede per esempio che, per raggirare i nostri sensi di colpa, ci diciamo "tutti i bambini hanno vissuto questa tappa e nessuno ne è uscito con problemi". Ma questo è solo un modo di non voler vedere cosa invece si muove dentro, lì sotto, dove abbiamo imparato a non guardare più: dentro di noi.



Allora il primo step è riconoscere che ciò che vive in noi si chiama senso di colpa e che esso nasce dal senso di impotenza rispetto alla precocità con cui chiediamo a nostro figlio di iniziare questa nuova tappa di vita.

Riconoscerlo, dare un nome a questo sentimento - quando non c'è chiarezza dentro di noi- è molto importante così come lo è rendersi conto che questo sentimento è anche tenuto in piedi da una società che preferisce guardare altrove: là verso altri luoghi dove giacciono interessi di altro tipo. Società che non riconosce appieno l'importanza della vicinanza emotiva e fisica tra mamma bambino nei primissimi anni di vita del figlio e che pertanto non agisce per salvaguardare questa priorità.


Dopo la presa di coscienza verso ciò che raramente stiamo sentendo, deve potersi mettere in moto l'azione perché nulla può essere realmente risolto se stiamo fermi. La mancanza di azione genera difatti il crogiolamento nelle emozioni che ci bloccano e più restiamo bloccati in esse meno ci attiviamo per muoverci. Insomma un pesce che si morde la coda.


Azione fa rima con trasformazione e non per puro caso direi.


"Trasformare" in questo caso specifico caso significa condividere quello che stiamo sentendo con il proprio bambino. E la condivisione è a tutti gli effetti un'azione, un moto, un andare verso.


Fino a pochi anni fa all'interno dei contesti educativi della prima infanzia vigeva la prassi di dire ai genitori di andare via -e anche abbastanza velocemente- nonostante il bambino si trovasse magari in un mare di lacrime. Mi discosto da questa visione molto protocollare -per fortuna meno viva di un tempo- perché essa viene a minare il concetto di risonanza emotiva, una delle più recenti scoperte nel campo scientifico, che ci viene proprio a parlare di come i piccini apprendono le emozioni attraverso ciò che osservano nei propri genitori.


Le neuroscenze ci dicono che se io bevo un bicchiere d'acqua davanti a mio figlio, nel suo cervello si attivano gli stessi neuroni che si attivano in me che porto a termine questa azione -anche se lui non compie la mia stessa azione-. Ovvero nella corteccia motoria di entrambi i cervelli si attivano gli stessi neuroni semplicemente grazie all'osservazione.

Ma i neuroni specchio sono anche legati alla comprensione dello stato d'animo altrui, prima di qualsiasi tipo di mediazione linguistica o concettuale.

Dunque non intervengono solo nella percezione delle azioni ma anche ad una comprensione molto più profonda e che parla delle emozioni degli altri. Insomma una meraviglia del nostro cervello!

Entrare in risonanza emotiva con il proprio figlio, se esso si trova in una condizione di disagio perché mamma se ne va, significa per esempio rivolgergli -con un intenzione mirata di condivisione- le seguenti parole “Tesoro mi dispiace lasciarti, anche a me piacerebbe stare con te, ma non posso fare altrimenti, so che per te suppone tanto stare lontano da me, anche tu mi mancherai tantissimo ma devo andare. Mamma sa che ti sta lasciando in un posto che ti accoglierà al meglio e con persone che tengono a te.” (ovviamente è importante che mamma prima abbia verificato di lasciare davvero il proprio figlio in mani e cuori esperti)


Se il bambino soffre per questo distacco è importantissimo dimostrargli lo stesso tipo di emozione dolente perché questo gli permette di sentire che la mamma vibra con lui, è in risonanza con lui.


Il bambino non penserà "mamma mi comprende" - il raziocinio così come lo conosciamo noi, non esiste a quell'età - ma sentirà questa comprensione dentro di sé e questo proprio grazie all'esperienza che la mamma gli offre e che lui pertanto vive, di poter vedere riflesse nella mamma le sue proprie emozioni. E’ importante dunque fargli capire che c’è una considerazione delle sue difficoltà, di ciò che lo spaventa. Quando non offro risonanza al bambino può mancare la conferma del suo dolore.


Come afferma Giuliana Mieli, psicoterapeuta di grande spessore nonché mia insegnate: "poi quando torniamo a prenderlo ci buttiamo dentro la passione, l’abbraccio, la gioia di ritrovarci ed il bimbo impara che c’è tutta una gamma di emozioni che colorano la vita. Così si costruisce una relazione che risuona ed il bambino quando vuole lanciarti un messaggio importante lo sa fare e tu lo sai recepire perché risuonate insieme"


E’ sconsigliabile pertanto comportarsi con lui pretendendo che si comporti come se fosse “grande” e che risolva da sé quella parte che lo angoscia.


La chiave è comprendere dal latino cum-prenendere, ovvero prendere insieme, contenere, unire, abbracciare. E così insieme si rielabora cosa ci ha separato anche ingiustamente.

Come dicevo all'inizio di questo scritto, nel bambino la comprensione di quello che succede non passa attraverso le parole ma solo attraverso l'esperienza, per questo motivo le emozioni non vanno spiegate a parole ai bambini ma fatte vivere attraverso l'esperienza (diretta o indiretta attraverso per esempio la lettura di fiabe e favole)


Pertanto non importa che tuo figlio capisca o meno le parole che gli dici. Difatti prima dei due anni, l’emisfero sinistro che è quello deputato all’analisi delle parole ed i suoi significati non è attivo mentre lo è l’emisfero destro che invece analizza il contenuto emotivo.. ma il bambino sente l’intenzione che è racchiusa in ciò che gli dici attraverso la modalità con cui usi la voce, il tono della voce, il timbro..

Ma c'è un altro aspetto importante che si inserisce in questo contesto e su cui è bene portare la nostra attenzione: affidare il proprio bambino ad un contesto educativo o ad una persona diversa da sé, può fare riemergere nella mamma dei vissuti legati alla sua infanzia che riaffiorano proprio per il parallelismo che si crea con l'esperienza che sta per vivere il figlio e ciò che ha vissuto lei da piccola.


La mamma può allora fare moltissima fatica a separarsi dal bambino proprio perché viene ulteriormente invasa da proprie forze interiori che si manifestano con molta forza come se un vaso di Pandora fosse stato scoperchiato. Risulta pertanto fondamentale andare a ricontattare quelle parti ferite che possono parlare di abbandono, ingiustizia o rifiuto e farlo con l'aiuto di chi può accompagnare la donna in questo viaggio interiore.

Possono anche non esserci ricordi consci ma il nostro corpo parla e lo fa per noi, arriva dove la parola non arriva, arriva sempre. E dunque ci riempiamo di sintomi e ciò avviene perché disponiamo di una memoria cellulare che bypassa il ricordo. E il bambino tutto ciò lo sente e potrà vivere la sua esperienza con difficoltà perché ciuccerà quell’energia che è in circolo e farà così da specchio ai problemi irrisolti della mamma.


Ecco perché quando il bambino soffre non possiamo pensare che il problema sia esclusivamente suo. Come dice uno dei miei più amati psicoterapeuti -Mauro Scardovelli- "i bambini mettono in scena i conflitti irrisolti dei genitori- siano essi ferite emotive del singolo, siano essi problemi nell’universo coppia"


Pertanto se la mamma dà voce alle proprie paure più o meno consce e le rielabora, starà facendo un dono a sé, a suo figlio e alla famiglia intera.


Ringrazio la Dottoressa Giuliana Mieli che mi ha condotto per mano nei meandri della risonanza emotiva, attraverso le sue lezioni magistrali, e le mie figlie Martina e Vera per avermi offerto quelle esperienze attraverso le quali ho potuto vivere, rielaborare e fare miei questi concetti qui esposti.


Un caro saluto,


Wilma Riolo

Psicologa, Psicologa Perinatale e Ricercatrice Indipendente

www.lavitadentro.com

345-7955225

Ricevo su appuntamento a Milano -zona Stazione Centrale-

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